LETTERE 1942-1966
a cura di Albertina Vittoria
Carocci, Roma 2013
pp. 526, € 49,00 | 9788843069149
Nelle lettere di due protagonisti della storiografia moderna e contemporanea, Cantimori e Manacorda, sono discusse molte vicende dell’organizzazione culturale del Partito comunista italiano e dei suoi rapporti con gli intellettuali negli anni Cinquanta e Sessanta: le riviste “Movimento operaio”, “Società” e “Studi Storici”, l’Istituto Gramsci, la commissione culturale. Al centro del denso carteggio è principalmente il rapporto fra la politica e la cultura: il ragionare dei due studiosi verteva sulla convinzione che la ricerca dovesse essere, come sosteneva Gramsci, tanto più «disinteressata» quanto più «impegnata», e sull’interrogativo se fosse possibile svolgere in maniera indipendente la propria attività pur aderendo a un partito. Su questo le loro posizioni divergeranno, finché, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, Cantimori uscirà dal Pci, mentre Manacorda, convinto che fosse possibile condurre la ricerca e dirigere riviste autonomamente, rimarrà iscritto. Dalle lettere e dal confronto con altre fonti private e del Pci emergono sia significative novità in merito ad alcuni passaggi di quegli anni, sia, soprattutto, la complessità degli eventi e la drammaticità con la quale venivano vissute scelte personali o decisioni imposte: una complessità che conferma quanto sia necessario studiare il Novecento superando le barriere ideologiche della guerra fredda.
La «ricerca oggettiva»: il rapporto fra la politica e la cultura per Gastone Manacorda e Delio Cantimori
Introduzione al carteggio di Albertina Vittoria
Nota al testo
Lettere 1942-1966
Cartoline senza data
Indice dei nomi
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Introduzione
di Albertina Vittoria
Storia di un carteggio e di un’amicizia
Con la pubblicazione di questo carteggio viene esaudita la volontà di Gastone Manacorda, che negli ultimi anni della sua vita – finché le forze glielo permisero – lavorò a questo fine. Sulla personalità di studioso e di maestro di Cantimori e sulla loro amicizia, Manacorda si soffermò a lungo in fasi diverse: con la recensione agli Studi di storia, che apparve sul primo numero di “Studi Storici”, con il ricordo pubblicato dopo la scomparsa, con la bellissima relazione al convegno di Russi del 1978, nella quale citò alcune sue lettere, infine, nell’impegno per l’impostazione e la realizzazione del seminario su Cantimori organizzato da “Studi Storici” e dalla Fondazione Istituto Gramsci nel giugno 1992 in occasione della pubblicazione presso Einaudi di Eretici italiani del Cinquecento e Politica e storia contemporanea, curati da Adriano Prosperi (1992) e da Luisa Mangoni (1991). Negli anni successivi, per quanto sempre più provato dalla malattia, Manacorda ritornò a questo rapporto e riprese in mano le lettere di Cantimori nelle quali il loro dialogo era racchiuso e conservato. Le riordinò, le annotò, ci lavorò in vista di una loro pubblicazione, aiutato da una delle sue ultime allieve, Ilaria Mandolesi: numerose sono le annotazioni fatte in margine alle lettere, nonché le indicazioni di carattere tipografico per un futuro editore di questo materiale. Tutte le lettere di Cantimori furono poi fatte fotocopiare nell’intento di donarle all’Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa: volontà alla quale si dà seguito assieme a questa edizione. Alcune lettere di Cantimori – che usava fare più versioni di una stessa missiva – non furono invece ricevute da Manacorda perché non spedite: le ho potute vedere grazie alla dott.ssa Maddalena Taglioli, ora curatrice dell’Archivio della Normale, che con competenza e grande disponibilità le ha cercate e rinvenute nella parte non inventariata delle carte di Cantimori (maggio 2012). Sono 11 lettere in tutto, alcune delle quali costituiscono una versione diversa di lettere spedite, altre invece sono versioni a sé stanti. Come si potrà constatare, sono testi di grandissimo interesse poiché completano il pensiero di Cantimori su questioni di notevole importanza o forniscono inediti significativi (come il suo parere sulla Storia della politica estera italiana di Chabod e l’incipit della recensione che non riuscì a scrivere). A queste va aggiunta la lettera del 10 giugno 1947 (velina dattiloscritta), con la quale Cantimori accettava di compiere la traduzione del Capitale, che potrebbe essere considerata una vera minuta e che quindi dovrebbe essere stata spedita, anche se non era conservata tra le carte di Manacorda. Tra le carte di Manacorda vi sono molte tracce della riflessione che accompagnò il lavoro attorno alle lettere: appunti e commenti, che a volte si intrecciano con appunti e commenti di una ventina d’anni prima relativi all’elaborazione della relazione per il convegno di Russi. In due occasioni è avviato l’incipit di una probabile introduzione al carteggio. Il progetto probabilmente prevedeva una ricostruzione biografica, dal momento che tra le carte è conservato un block notes intitolato Quaderno di Gastone Manacorda cominciato il 6 agosto 1997, con l’intento di illustrare i miei pochi (ma eccellenti) maestri. Il block notes, interrotto dopo poche pagine, iniziava proprio con La mia amicizia con Delio Cantimori, annunciando il proposito di volere narrare «come cominciò, come si sviluppò, attraverso quali vicende crebbe e come non finì ma morì di morte naturale». Assieme al riordino delle lettere di Cantimori, Manacorda proseguì nella ricerca delle proprie per ricostruire il carteggio integralmente, ricerca avviata già in precedenza, come è testimoniato dalla corrispondenza con Mario Mirri del 1990 a proposito della destinazione avuta dalle carte di Cantimori dopo la scomparsa di Emma Mezzomonti8. Nel 1997 dall’Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa, presso il quale era iniziato il riordino delle Carte Cantimori, ricevette la fotocopia di 55 delle sue lettere. Una parte cospicua delle sue missive, tuttavia, non ebbe modo di vederla, perché molte furono ritrovate dopo la sua scomparsa, avvenuta il 27 aprile 2001: altre 38 lettere furono inviate in fotocopia dalla dott.ssa Milletta Sbrilli a Marcella Manacorda nel dicembre 2002; mentre altre 36 furono rinvenute successivamente all’interno dei libri di Cantimori (nuovo ritrovamento) e mi furono consegnate personalmente a Pisa, quando sono tornata per proseguire la mia ricerca nel settembre 2009, da Stefano Pieroni. Numerose sono sicuramente le lettere mancanti di Manacorda, come si può constatare e come si comprende da riferimenti di Cantimori; così come ne manca ancora qualcuna di Cantimori. A rivedere il lavoro compiuto e gli appunti presi, si ha l’impressione che per Manacorda il riandare con la memoria alla vita del proprio amico e maestro, alla loro amicizia, alle vicende che li videro protagonisti, lo aiutasse a ripercorrere e comprendere le scelte anche della propria vita. In una lettera del 21 aprile 1956, ad esempio, Cantimori, consigliando Manacorda in merito alla decisione da prendere in una fase in cui si stava avviando una riorganizzazione di “Società”, affermava: «personalmente, soggettivamente, individualmente, privatamente, come amico», se si trattava di scegliere tra l’attività di studioso e quella di direttore della rivista, «se proprio non ce la fai a far le due cose insieme, – fa il libro, e lascia andare il resto»; anche se, guardando la questione dal punto di vista oggettivo, si rendeva conto che la direzione «gastoniana» – come la definiva – di “Società” sarebbe stata l’unica garanzia di vitalità per la rivista stessa. A commento di questa frase, Manacorda annotava: «è un pezzo fondamentale sull’eterno problema della mia scelta di vita», concentrarsi nello studio e nella scrittura, oppure impegnarsi nella politica e nell’organizzazione culturale. Sarà questo il filo conduttore delle lettere e della loro amicizia. Ed era proprio il rapporto fra cultura e politica, e più precisamente il rapporto con il Partito comunista, che Manacorda indagava nelle lettere di Cantimori, come emerge dalla relazione al convegno di Russi e come egli affermò in maniera esplicita in quella occasione. La relazione, infatti, inizialmente avrebbe dovuto vertere su Delio Cantimori e la storia del socialismo, mentre solo successivamente il centro fu spostato su Cantimori e il Partito comunista italiano, come spiegò egli stesso nelle prime pagine del manoscritto letto al convegno, che verranno cancellate per la copia destinata agli atti: Quando il sindaco di Russi mi ha cortesemente invitato ad indicare quale sarebbe stato il mio contributo a questo nostro incontro di riflessione e di studio, la mia scelta era obbligata. Dei molti campi nei quali Delio Cantimori ha lavorato soltanto in uno potevo, infatti, riconoscermi un minimo di competenza. Scelsi quindi la storia del socialismo. Avrei, tuttavia, scartato questa scelta soggettivamente obbligata se essa non avesse avuto anche ragioni obiettive, se non avesse contemplato, cioè, un interesse che per qualche anno occupò considerevolmente l’operosità di Cantimori – e per un breve periodo fu, anzi, prevalente anche sui suoi interessi più costanti – e si accompagnò alla fase di più diretto impegno politico dello studioso. Ma è stata proprio la convinzione che fosse necessario chiarificare il rapporto tra l’impegno politico e gli studi di storia del socialismo a farmi modificare il tema della relazione così come l’avevo previsto in un primo momento. Il mio sarà, dunque (tanto per indicare un titolo provvisorio), un contributo alla biografia intellettuale di DC, potrei dire politico-intellettuale, con particolare riguardo al suo rapporto col PCI. La questione del rapporto fra attività politica e ricerca storica riguardava entrambi, era sentita da entrambi con la stessa passione e gli stessi interrogativi, anche se nel corso del tempo sarà declinata in maniera diversa: le loro lettere narrano questo percorso e come esso sia maturato di fronte agli eventi – politici, culturali, interni e internazionali – che segnarono gli anni Cinquanta. Le pagine che seguono saranno centrate su questo aspetto specifico del loro rapporto, senza avere la pretesa di indagare né le rispettive produzioni storiografiche, né il complessivo dibattito e i temi della storiografia di quegli anni. Il loro non fu un rapporto asettico, ma di profonda amicizia. Un’amicizia sui generis, poiché se Manacorda ha sempre riconosciuto in Cantimori un maestro, la persona che ebbe su di lui «la maggiore influenza […] come studioso», tuttavia non ne era allievo accademico: questo, come si vede dalle lettere, fece sì che il loro fosse un rapporto – anche se, certo, non totalmente – alla pari. Dal canto suo, Cantimori, legato a Manacorda per la comune convinzione che la cultura non doveva essere sottomessa a fini politici, aveva una stima profonda per lui sia dal punto di vista umano, sia come studioso. In una delle lettere non spedite, ad esempio, nel 1947 Cantimori, paragonando i propri trent’anni ai suoi, gli scriveva che, rispetto a sé, «tu hai scavato in profondo, hai fatto il viaggio al centro della terra: tu non sai forse quante energie puoi sviluppare, se viene il momento che tu ti possa dedicare un po’ più agli studi»: «vorrei che tutti avessimo fatto alla tua età quello che tu hai fatto e stai facendo. Conta anche la maturità del giudizio e la sicurezza dell’orientamento e la precisione dell’espressione». Secondo quanto scrisse Cantimori nel 1959, in una bozza di lettera di presentazione del figlio minore di Manacorda, Benedetto, per una borsa di studio dell’American Field Service, la loro amicizia iniziò nell’«inverno 1939-40», quando egli conobbe suo fratello Paolo Emilio nella redazione dell’Enciclopedia italiana, della quale erano entrambi collaboratori. Il fratello minore di Manacorda, italianista, era entrato in contatto nella Facoltà romana di Lettere con Mario Alicata, Carlo Muscetta, Carlo Salinari e altri giovani che avrebbero avviato la propria attività antifascista alla fine degli anni Trenta, alcuni dei quali sarebbero divenuti comunisti: sarà proprio lui a fare da tramite tra Gastone Manacorda, che si era laureato in Legge, e questo gruppo, attraverso il quale ebbe inizio il suo impegno politico. Vita segnata da un tragico destino, poiché, inviato al fronte in Jugoslavia, Paolo Emilio morì il 25 febbraio 1942, ucciso da quei partigiani nelle cui file stava cercando di passare. L’amicizia con Paolo Emilio, «purtroppo rimasta “prima”, senza seguito », veniva ricordata da Cantimori con rimpianto nella corrispondenza con Manacorda e in questa lettera di presentazione per Benedetto, dove parlava dell’incontro sia con Gastone che con l’altro fratello, Mario Alighiero, e del rapporto con «una famiglia della quale avevo sentito parlare per le sue tradizioni patriottiche (un nonno garibaldino) e scientifiche (il Prof. Giuseppe Manacorda, studioso di storia e letteratura dei più valenti, famoso per le sue iniziate ricerche di storia della scuola, delle quali avevo preso conoscenza quando studiavo all’università) », scomparso prematuramente per l’epidemia di febbre spagnola il 4 gennaio 1920. Manacorda ha invece collocato l’incontro con Cantimori alla fine del 1942 (sbagliando in realtà di un anno, poiché l’incontro avvenne alla fine del 1941), quando egli – allora docente all’Istituto magistrale di Perugia – lo andò a trovare a Roma per parlargli della Cospirazione per l’uguaglianza di Filippo Buonarroti, la cui traduzione voleva proporre all’editore Einaudi, idea che Cantimori trovò «ottima». Da allora nacque un’amicizia che si rafforzò per il comune antifascismo, i comuni interessi storiografici, in particolare per «l’interesse verso la storia del socialismo, verso il marxismo, verso la rivoluzione russa: che era un’esigenza politica – ha ricordato Manacorda –, ma che volevamo trattare come materia di studio». Sarebbe poi proseguita dopo la Liberazione, nella collaborazione alla casa editrice Einaudi, nell’impegno nell’Associazione per la difesa della scuola nazionale, nelle riviste e nelle istituzioni che facevano capo al PCI. Le lettere tra i due studiosi rivelano un’amicizia che andava al di là degli impegni condivisi e degli interessi scientifici, ed offrono frequenti spaccati di vita quotidiana e di familiarità: l’ospitalità nelle rispettive case di Roma e di Firenze, la reciproca simpatia tra le mogli, Marcella Balboni ed Emma Mezzomonti, le attenzioni di Cantimori per i figli di Manacorda, Giorgio e Benedetto, lo scambio di pensieri e di libri, lo schermirsi di Manacorda per le formalità del «vecchio zio», prodigo di doni, «fiori ed omaggi cavallereschi». «Ma come esprimere la gratitudine per come sono stato bene, anche psicologicamente e intellettualmente, da voi – scriveva Cantimori in occasione di un’ospitalità romana nel 1955 –, e per le cose, anche non dette, che ho imparato stando con voi? Sono io che devo ringraziarvi della confortante amicizia che ho sentito e percepito a casa vostra!». E ancora, tra una discussione su questioni politiche o storiografiche e l’altra, le informazioni sulla salute e i malesseri fisici e psicologici, con suggerimenti e consigli su farmaci e cure. L’annuncio, infine, di notizie gioiose della famiglia: «stamane è nata una nipotina bella, vispa e robusta, con grande gioia dei giovani genitori nonché dei men giovani nonni », comunicava felice Gastone Manacorda il 21 giugno 1966 la nascita della primogenita di Giorgio, Simona, in quella che fu la penultima lettera della loro corrispondenza. Assieme a loro, Emma e Marcella, presenze forti e coraggiose a fianco dei rispettivi compagni. Emma Mittempergher, nata a Bolzano nel 1903 – «di razza degasperiana (è un complimento, in un certo senso, e dico sul serio)», come la definiva scherzosamente Cantimori –, il cui cognome venne italianizzato in Mezzomonti, traduttrice del Manifesto del Partito Comunista, di diverse opere di Marx e di Engels e di Aby Warburg, dopo esser stata redattrice delle Edizioni Rinascita e aver insegnato tedesco nelle superiori, nel 1950 fu incaricata di lingua tedesca presso la Facoltà di Scienze economiche dell’Università di Firenze. Di lei, militante comunista e collaboratrice del “Soccorso rosso”, si è sempre parlato per il ruolo importante avuto nella maturazione del pensiero politico del futuro marito, anzi per l’esser stata determinante nel suo passaggio dal fascismo all’antifascismo e al comunismo: una annotazione di Cantimori, di commento a una gita a Caprarola con Emma del 1935, citata da Adriano Prosperi, accenna al «mescolar cose umane con la vita pubblica, politica», come caratteristica della personalità della futura moglie, che confermerebbe l’impossibilità di un legame laddove le idee politiche dell’uno e dell’altra fossero rimaste distanti. Roberto Pertici, invece, sulla base della documentazione fornita da Silvana Seidel Menchi, sposta i tempi dell’antifascismo di Cantimori, ritenendo che Cantimori ed Emma Mezzomonti quando si sposarono nel 1936 erano ancora su posizioni differenti, il che, peraltro, rafforzerebbe il ruolo della moglie nella maturazione delle scelte politiche del marito. In una lettera del 1961 alla sua allieva Silvana Menchi, infatti, Cantimori, con «trasparente riferimento» al proprio matrimonio, aveva scritto: «Conosco una A comunista che tanti mai anni fa sposò un non comunista B, antico fascista (non squadrista o altro), sinistrorsa umanitaria, piena di riserve antistaliniane ecc.; quando (si era in periodo “cospirativo”) A domandò consiglio a Emilio Sereni, questi rispose: purché non ti impedisca la tua attività, sapendo i rischi che comporta». Questo farebbe quindi pensare che almeno fino al 1935 – periodo cui si riferisce l’accenno autobiografico – Cantimori non condividesse la posizione politica e ideale della futura moglie, tanto da dovere quest’ultima chiedere l’avallo per il proprio matrimonio a un dirigente del PCI. Come si vedrà, dalle lettere a Manacorda e a Mario Mirri, si direbbe che la sua crisi e la fine delle «illusioni» sul «carattere rivoluzionario e rinnovatore » del fascismo fosse iniziata addirittura prima, fra il 1933 e il 1934, in rapporto quindi all’avvento del nazismo in Germania: «fu anche il nazionalsocialismo ad aprirmi gli occhi», come scriveva a Mirri. Non molto di più, però, è dato sapere di questa forte personalità, che, incaricata dal Partito comunista di stabilire «un contatto» con il giovane professore Cantimori – conosciuto a Roma all’Istituto di studi germanici, dove egli fu assistente fra il 1934 e il 1936 –, riuscì ad avere un’importante influenza su di lui, inserendosi nel processo di distacco da quella che era allora la sua convinzione: vale a dire che «il fascismo aveva fatto e stava facendo la vera rivoluzione italiana, che doveva diventare rivoluzione europea» e che «la strada giusta fosse per l’Italia quella dei fascisti»; contribuendo quindi al suo avvicinamento al PCI, al quale egli si sarebbe iscritto nel 1948. E che, di lì in avanti, avrebbe mantenuto con il marito un rapporto anche di collaborazione scientifica quasi simbiotico, così come l’ha ricordato Manacorda a proposito della traduzione del Manifesto: L’edizione e il commento sono di Emma Cantimori Mezzomonti, le cui qualità di studiosa molti di noi hanno conosciuto e apprezzato, e chi vi parla in particolare per averla avuta collaboratrice preziosa nella redazione delle «Edizioni Rinascita» fra il 1946 e il 1950. D’altra parte, sappiamo quale fosse la collaborazione costante di Emma al lavoro di Delio […] La traduzione e il commento del Manifesto sono usciti – dirò con un’immagine alla quale Cantimori ricorreva frequentemente parlando del suo lavoro – da quel laboratorio artigiano che era il suo studio, la sua casa, la sua straordinaria biblioteca, e che non si possono immaginare senza la presenza attiva della sua compagna di vita e di lavoro. E come riconosceva lo stesso Cantimori, quando, nel comunicare a Manacorda di aver finito la traduzione del Capitale, oltre a ringraziare l’amico di averlo spinto in questo lavoro dandogli «il coraggio e la fiducia in me necessaria», sottolineava: «Senza l’Emma, non avrei continuato». E Manacorda a sua volta: «oltre che con te, mi congratulo con Emma, i cui meriti sono anche in questo caso di gran lunga superiori ai miei». Di Emma Mezzomonti, scomparsa il 18 marzo 1969, si sente la presenza nei riferimenti di Cantimori, si avverte l’ammirazione di Manacorda che la voleva tra i collaboratori di “Società” e che l’apprezzava per la sua opera di traduttrice. Se ne intravede la figura dietro le quinte, da dove seguiva i rapporti del marito, pronta anche a scrivere – magari in maniera riservata – all’amico Manacorda, per fugare dubbi su possibili incomprensioni. Così come si sentono nelle lettere la presenza affettuosa e costante di Marcella Balboni e, assieme a lei, gli echi della vita familiare e delle amicizie, le difficoltà economiche e lavorative. Nata a Roma nel 1919, sposatasi giovanissima nel 1940 e presto madre dei due figli nati a poco più di un anno di distanza, Giorgio e Benedetto, seguì il marito nelle destinazioni dove lo condussero prima l’insegnamento, a Perugia, poi la guerra, a Treviso, tornando dopo l’8 settembre a Roma, dove Manacorda partecipò all’attività clandestina della Resistenza. Marcella Balboni aveva studiato chimica all’Università ma nei tempi assai duri della guerra e dell’occupazione tedesca non le fu possibile continuare gli studi, che terminò solo dopo la Liberazione, abbandonando poi la professione per dedicarsi al lavoro editoriale presso le Edizioni di cultura sociale e poi gli Editori Riuniti. Marcella è scomparsa il 25 giugno 2006 e non posso qui non ricordarla con un sentimento di profonda nostalgia e di immensa gratitudine. A lei si deve questo lavoro, così come alla disponibilità del figlio Giorgio, che da solo ha dovuto assumere l’onere dell’eredità intellettuale paterna, essendo Benedetto tragicamente scomparso nel luglio 1999. Dopo la morte di Gastone Manacorda, quel legame che avevo stabilito con lui – da allieva “adottata”, se posso dir così, da quando iniziai a studiare gli organismi culturali, “Studi Storici” e l’Istituto Gramsci, nei quali egli fu protagonista di primo piano – è proseguito trasferendosi nell’amicizia che da quel momento nacque con Marcella: lei ebbe il grande coraggio – lo dico senza retorica – di aprire la porta dello studio di Gastone, di indicarmi gli scaffali dove erano le sue carte, di farmi mettere alla sua scrivania – cosa che feci non senza emozione, e posso immaginare la sua nel vedere nuovamente una figura in quella stanza – e di farmele esaminare e studiare. Da qui è nato il progetto del fascicolo monografico che “Studi Storici”, la rivista da lui fondata e diretta, ha voluto dedicargli nel 2003, sostenuto dalla direzione della rivista e dal direttore Francesco Barbagallo e realizzato con la collaborazione di Claudio Natoli e Leonardo Rapone. Da qui la richiesta che ella mi fece di occuparmi del carteggio con Cantimori per il saggio apparso su “Studi Storici” e poi per l’edizione integrale che ora, dopo diversi anni, vede la luce. Dopo la scomparsa di Marcella, Giorgio Manacorda ha ritenuto che il luogo migliore dove conservare le carte del padre – delle quali avevo fatto un primo riordino – fosse l’archivio della Fondazione Istituto Gramsci, dove egli fino all’ultimo aveva riversato il proprio impegno, anche con l’attiva partecipazione a “Studi Storici”, dal 1983 diretta da Francesco Barbagallo, cambio di direzione da lui stesso favorito. La ricca e bella biblioteca è stata invece donata all’Istituto storico germanico di Roma. Questa introduzione rappresenta un’ulteriore elaborazione del saggio di “Studi Storici”, con sostanziali integrazioni e modifiche derivate dalla disponibilità delle nuove lettere di Manacorda, delle lettere non spedite di Cantimori e di altre fonti, e da ulteriori ricerche nell’Archivio Cantimori alla Normale di Pisa (in particolare la corrispondenza di Mario Mirri, completa delle lettere di Cantimori che egli ha donato all’Archivio, e che corre parallela a quella con Manacorda), che hanno permesso la comprensione di passaggi prima oscuri, una più precisa connessione tra diversi eventi e chiarimenti nella datazione di alcune lettere. […]