DEGLI ANNI DIFFICILI
Maria Baroncini
a cura di Maria Luisa Righi
Lithos, Roma 2018 pp. 143, € 12,00 | 9788899581787
PUBBLICAZIONE REALIZZATA CON IL CONTRIBUTO DELLA FONDAZIONE
Queste memorie vedono la luce trentasei anni dopo la loro stesura. Maria Baroncini aveva finito di scriverle agli inizi del 1982. L’aveva sollecitata a farlo Enrico Berlinguer che le chiese di raccontare la storia della sua militanza politica e di ricordare la persecuzione subita negli anni del fascismo e gli oltre dieci anni di confino trascorsi tra Ponza e Ventotene.
Una testimonianza esemplare che torna dal passato e ci aiuta a comprendere l’esperienza di quella generazione che, nella prima metà del Novecento, seppe compiere scelte politiche pur prevedendo i costi altissimi che esse comportavano.
Prefazione di Rosanna de Longis, 7
Introduzione di Maria Luisa Righi,11
Presentazione di Camilla Ravera, 21
Memorie degli anni difficili, 23
1. La prima esperienza politica nel partito socialista, 25
2. La nascita del Pci e l’adesione al comunismo, 33
3. Il soggiorno a Mosca, 41
4. Il lavoro illegale a Parigi, 45
5. I viaggi clandestini in Italia e l’arresto, 55
6. Dal carcere di Bologna all’isola di Ponza, 67
7. La vita nell’isola. La corrispondenza segreta col Centro estero del partito, 71
8. Altri cinque anni di confino, 91
9. L’arrivo a Ponza di un gruppo di dirigenti e il trasferimento all’isola di Ventotene, 101
10. La caduta del fascismo e la liberazione dei confinati politici, 111
11. Il lavoro illegale a Roma e i collegamenti con Milano, 115
12. Al Direttivo dell’Unione donne italiane, 125
Ricordo di Maria Baroncini di Vinca Berti, 129
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Prefazione
di Rosanna de Longis
Il racconto di sé che Maria Baroncini ci ha lasciato scorre lineare, asciutto: ma la materia che tratta – la vita di una donna che ha percorso le più forti esperienze del Novecento – è incandescente e vulcanica. Inizia con i primi anni di vita, nelle campagne imolesi, il lavoro precoce a fianco dei genitori, l’accudimento dei numerosi fratelli più piccoli: Ero la maggiore di sei figli, due maschi e quattro femmine, e quando mia madre andava al lavoro come bracciante, dovevo occuparmi io dei fratellini, perché usciva di casa di buon mattino per rientrare al tramonto insieme alle altre lavoratrici. Lavoro duro di lunghe ore, né nel paese vi erano possibilità di un lavoro diverso. […] Il lavoro di mio padre consisteva, in un primo tempo, nel raccogliere nel fiume Sillaro ghiaia, ciottoli e piccoli frammenti di roccia trasportati dal fiume, che venivano portati a casa e frantumati con il martello per massicciare le strade e per altri usi. Anch’io, qualche volta, anche se ancora ragazzina (avevo appena 10 anni), partecipavo volentieri a questo lavoro faticoso che, se da un lato mi divertiva, spesse volte mi procurava qualche colpo di martello sulle dita della mano. Ma la mia principale occupazione era sempre l’assistenza dei miei fratellini, data la loro tenera età […]. Ha solo dodici anni, Maria, quando l’Italia entra in guerra, nel maggio del 1915, ma già prende parte convinta a un’iniziativa pacifista:
Venivano tolte le coccarde tricolori e al loro posto venivano messe coccarde bianche come simboli di neutralità. Il loro significato me lo aveva chiarito mio padre fin dai primi giorni di guerra. Così anch’io appuntai la mia coccarda bianca al petto. Si cominciava a prendere coscienza di questa verità: la pace non si attende, si conquista. Il contatto con le sofferenze causate dalla guerra è traumatico e suscita in Maria la spinta a compiere le sue scelte di militanza e di vita: Ricordo come fosse adesso il suono delle sirene della Croce rossa e delle ambulanze che a tutte le ore del giorno e della notte portavano feriti, ammalati e mutilati nel vecchio convento delle monache, che nel frattempo si erano trasferite altrove. Erano episodi assai dolorosi che commuovevano tutta la popolazione. Io abitavo di fronte al convento e sentivo che era mio dovere fare qualcosa per alleviare quelle sofferenze. Così, insieme ad altre amiche e compagne, cercammo di far arrivare cibo e parole di conforto a quei soldati che, affacciati spesso alla finestra, avevano preso l’abitudine a far scendere con una corda un cestino per ricevere pane fresco, frutta e spesso anche una spaghettata. Sono entrata nel partito socialista nel 1920, a 17 anni. Avevo seguito le elezioni politiche del 1919, che, in virtù della forza della classe operaia, portarono alla Camera 156 deputati socialisti. Fu un grande successo e il mio entusiasmo era tale che feci con le mie mani un vestitino di seta rosso con il simbolo del partito: falce e martello circondati da spighe di grano. Episodi commoventi, che mostrano, insieme con la spontanea generosità e gli ingenui entusiasmi di un’adolescente, quell’intreccio strettissimo di affetti privati e passione politica che rappresenterà la cifra della vita di Maria. Nella vicenda biografica di Maria Baroncini, come è da lei stessa narrata, non si coglie un momento in cui i legami affettivi siano vissuti separatamente dall’impegno pubblico. L’unione con Giuseppe Berti, la nascita nel 1927 e la prima infanzia della loro figlia Vinca sono intrecciate e modulate sui ritmi e le esigenze della vita in clandestinità tra l’Italia e l’estero, tra Milano, Mosca, Ustica, Imola, Parigi, Bruxelles. Solo la cattura di Maria nel 1932 rappresenta, con la separazione forzata da Giuseppe e Vinca, uno strappo – doloroso ma non inaspettato – nella trama di una vita movimentata ma non disarmonica. Per undici anni, dal 1932 al 1943, senza essere mai sottoposta a un vero processo, Maria subisce una pesante condanna al confino, che la allontana dalla figlia e dal marito. Nella reclusione Maria, pazientemente e tenacemente, ritrova e ricostruisce una sua vita affettiva, il legame con la sorella Nella, anche lei confinata, il nuovo amore con Mauro Scoccimarro. Anni e anni nella speranza di riabbracciare la figlia, un’attesa spasmodica, a stento celata nel ricordo: La mia più grave preoccupazione riguardava mia figlia, che fu lasciata sola a Parigi dal padre partito in America. Il pensiero mi tormentava, anche se la sapevo vicina ai compagni: mio desiderio era allora di averla a Ventotene con me. […] Pensavo solo al giorno del suo arrivo per poterla vedere e abbracciare dopo undici anni di lontananza. L’attesa non fu delusa, perché la direzione mi comunicò che sarebbe arrivata col primo piroscafo e che avrebbe potuto abitare insieme a me, cioè nello stesso padiglione riservato alle donne. Mi ero procurata un lettino con relativo materasso, coperta e lenzuola, il necessario perché potesse dormire tranquilla dopo un così lungo viaggio. Avevo fatto sistemare il mio angolo del camerone come una stanzetta, con le pareti in legno, per essere più tranquille e non recare disturbo alle altre confinate. Mia figlia restò a Ventotene fino alla caduta del fascismo. Fa da contrappunto, in tutta la sua crudezza, il racconto di Vinca: Avevo tredici anni quando, dopo un lungo periodo di separazione, ho incontrato mia madre, una “sconosciuta”. […] Dopo il suo arresto non ci eravamo più riviste, e questi lunghi anni, eravamo ormai nel 1940, avevano cancellato ogni ricordo dei primissimi anni della mia infanzia. […] Quando, dopo l’occupazione tedesca di Parigi, dove vivevo, rientrai in Italia, chiesi subito alle autorità competenti di poterla andare a trovare al confino di Ventotene, dove era reclusa. Non ricordo se il Ministero mi concesse una visita di quindici o trenta giorni. Fu uno strano appuntamento. Tanto atteso e sofferto da parte di mia madre, distaccato da parte mia, ragazzina di tredici anni che andava ad incontrare una “estranea”. Anche il luogo dell’incontro era anomalo, un grande capannone-dormitorio che ospitava tutte le donne detenute a Ventotene. […] Non era certo il luogo più adatto, non tanto per mia madre che era abituata a viverci ed era tutta presa dalle emozioni e dall’attesa di riabbracciarmi, quanto per me e per il mio stato d’animo in cui cresceva disagio e imbarazzo. Non era facile ripartire da un passato lontano e dimenticato e da una realtà così fredda, così distante. Era tutto faticosamente da ricostruire. Quella notte dormii per la prima volta nel capannone delle confinate in un lettino accanto a quello di mia madre. Durante la notte la sentii piangere a lungo, sicuramente l’incontro che aveva tanto a lungo sognato non si era svolto come aveva immaginato. Non feci nulla per interrompere quel pianto e oggi non ne sono molto fiera. Forse era un pianto di commozione a lungo trattenuta e repressa, forse – chissà? – persino di gioia: ma le parole amare e struggenti di Vinca rimandano il senso di colpa di un’incolpevole ragazzina che non riconosce la madre e non ne riesce a comprendere i sentimenti più elementari. O è, forse, il pianto silenzioso di Maria una resa dei conti con se stessa, a undici anni da quel gesto che – in obbedienza a un ferreo senso del dovere – le è costato una lunga separazione da Vinca, una ferita non rimarginata nella carne viva di madre e figlia.