Il 2014 è iniziato molto male per noi. È scomparsa la nostra carissima Marisa. Per oltre trent’anni è stata una forza essenziale di questa rivista: per il grande contributo scientifico, per la inesauribile capacità organizzativa, per l’acuta intelligenza delle proposte e dei progetti, per la saggezza dei consigli genero­samente distribuiti. Napoletana di stampo europeo, si laureò in Lettere con Salvatore Battaglia. Alla metà degli anni Sessanta seguí i corsi dell’Istituto italiano di Studi Storici, conobbe Enzo Cervelli e restarono insieme per mezzo secolo. Insegnò nei licei e collaborò col libraio-editore Gaetano Macchiaroli. Nel 1968 entrò per concorso alla Rai e lavorò come redattrice culturale fino al 1974. Pubblicò allora con Laterza il suo primo, innovativo saggio, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, e iniziò l’insegnamento universitario: a Trieste,con Giovanni Miccoli, poi a Venezia e a Trento. Il titolo del primo libro lo prese da un articolo di Giuseppe Bottai comparso sulla rivista «Primato» il 1° giugno 1940. E iniziò la sua originale ricerca sulle diverse forme dell’organizzazione culturale, sul ruolo degli intellettuali, sul rapporto tra la cultura e la formazione di una classe dirigente. In tempi di radicali polemiche antifasciste, che giungevano a negare spazio e significato alle espressioni culturali di quel ventennio, Marisa mise in luce le iniziative e le relazioni tra uomini del regime e studiosi di orientamenti innovativi. Ricostruí con precisione i legami tra Cesare Pavese per la casa editrice Einaudi eil gruppo redazionale di «Primato», di cui facevano parte Giaime Pintor, Mario Alicata, Carlo Muscetta. Riportò alla superficie l’ultima inchiesta della rivista nel marzo ’43 sull’esistenzialismo in Italia. Tra i partecipanti Antonio Banfi, Galvano Della Volpe, Enzo Paci, Cesare Luporini, oltre a Giovanni Gentile e Ugo Spirito, conclusioni di Nicola Abbagnano. Qualche anno dopo, nel 1977, apparve con l’editore De Donato la preziosa antologia di Primato 1940-1943. A metà anni Ottanta i rapporti tra la cultura italiana e la Francia tra Otto e Novecento furono approfonditi nel saggio einaudiano Una crisi fine secolo. Al centro era posta la «Revue des deux mondes» di Ferdinand Brunetière, che proclamava la «banqueroute de la science» e la «Renaissance de l’idéalisme», negli anni Novanta degli scandali bancari in Italia e in Francia, dell’antiparla­mentarismo diffuso, dei timori accesi dal suffragio universale e dalla nascente società di massa, l’«ére des foules» di Gustave Le Bon. In Italia intanto Cesare Lombroso affermava che «è il sistema parlamentare che spesso eccita al delitto»; per concludere anni dopo, riferendosi a Crispi, che la politica era «guasta specialmente in Italia, da quella psicosi che si chiama megalomania». Intanto il suo allievo Scipio Sighele aveva pubblicato La folla delinquente e Guglielmo Ferrero aveva stretto in un giudizio negativo parla­mentarismo e «cesarismo». Il frantumarsi in mille rivoli della scuola italiana di antropologia criminale «testimoniava l’estremo punto di arrivo della crisi del positivismo nel suo intrecciarsi con la crisi di fine secolo» (p. 208). Dieci anni dopo, nel terzo volume della laterziana Storia d’Italia, Marisa svilup­pava questi e altri temi nel denso saggio su Gli intellettuali alla prova dell’Italia unita. Riprendeva dalla Teorica dei governi e governo parlamentare di Gaetano Mosca il principio astratto della «formula politica», quale legittimazione del potere della «classe politica», e si chiedeva: «Era il trasformismo la “formula politica” dell’Italia degli anni Ottanta»? La risposta veniva molto tempo dopo, nella presentazione della raccolta di saggi meritoriamente pubblicata nel 2013 da Viella col titolo piú volte ripre­so, Civiltà della crisi: il trasformismo «individuato quindi come strumento di una unificazione da realizzarsi soprattutto nella classe dirigente e nello Stato, e divenuto poi progressivamente tratto distintivo di un abito mentale e di un costume» (pp. VII sg.). Sul finire degli anni Ottanta appariva nei tipi di Einaudi In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento. La disponibilità di uno sterminato epistolario consentiva di ricostruire l’eccezio­nale percorso politico-culturale, tra fascismo e democrazia, di questo prete, che si definiva «sradicato» quale «erede consapevole di un passato, quello intero della Chiesa di Roma, che non poteva essere commisurato a nessun’altra tra­dizione storicamente esistente, né nazionale, né ideale» (p. X). Alla vigilia del Concordato De Luca aveva confidato a Giuseppe Prezzolini il progetto di dedicarsi alla storia della pietà italiana e poi a Giovanni Papini il desiderio di creare «una rivistina, tipo la gloriosa Leonardo, o il Regno, o la Voce (Lacerba, no)» (p. 3). Percorrerà quindi fino in fondo questa strada, portando a compimento la fondazione delle Edizioni di Storia e Letteratura e dell’«Archivio italiano per la storia della pietà».Il settimo capitolo di questo libro avrà il titolo significativo Dalla crisi di una civiltà alla civiltà della crisi. Nel processo di formazione dell’Italia democratica don De Luca indicherà la novità dell’assenza di partiti nazionali, e affermerà che sia la Dc che il Pci potevano piuttosto definirsi come partiti politici «in Italia», considerati i rispettivi legami con gli Stati Uniti e con l’Unione So­vietica. Dall’intensa partecipazione alla nascente vita democratica scaturirà anche il legame con Franco Rodano, dal quale veniva a De Luca «la sempre piú netta percezione, evidentissima nella rivista “Cultura e realtà”, della civiltà contemporanea come “civiltà della crisi”» (p. 328).È probabile che da questa riflessione scaturisca in Marisa la particolare sensibi­lità per questa categoria interpretativa, all’interno peraltro della sua perspicua attenzione ai fondamenti metodologici dei concetti e delle interpretazioni dei fenomeni e dei processi storici. Proprio su questa rivista aveva fornito due prove magistrali sulla necessità di preparare solidi impianti metodologici e ca­tegoriali, adeguati a sostenere le ricostruzioni e le interpretazioni storiografiche. Nel 1977 comparve il densissimo saggio su Cesarismo, bonapartismo, fascismo, che analizzava lo sviluppo di queste categorie da Michels a Weber, da Schmitt a Trotskij, da Kalecki a Gramsci. Dieci anni dopo la riflessione si concentrò su La genesi delle categorie storico-politiche nei «Quaderni del carcere», con una dichiarata assonanza con «quell’a­bito di severa disciplina filologica», quell’eccesso di «scrupoli metodici» di cui Gramsci aveva parlato a Tania in una lettera dell’estate 1931. Crisi della civiltà, «teologia della crisi», nuove e antiche «guerre di religione», rapporti tra storia della cultura e ideologie politiche saranno al centro della cospicua antologia einaudiana degli scritti dedicati da Delio Cantimori, tra il 1927 e il 1942, alla Politica e storia contemporanea, curata da Marisa nel 1991 e aperta da un acuto saggio dal titolo Europa sotterranea. Di categorie, periodizzazioni e altre questioni di metodo si discuteva intanto, dal 1988 fino al principio dei «fatali» (ancora una volta) anni Novanta, nel gruppo di studiosi di ispirazione gramsciana che definirono la struttura dei cinque volumi della Storia dell’Italia repubblicana pubblicata poi da Einaudi, cui Marisa e Franco De Felice diedero un contributo straordinario. Nel primo volume del 1994, che affrontava gli anni de La costruzione della democrazia, apparve il saggio Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, dove si facevano i conti col fatto che non solo «la cultura del Novecento era stata in Italia fascista, ma piuttosto che gli intellettuali italiani attraverso il fascismo erano entrati nel Novecento» (p. 624). Poi, abbattuto il fascismo con la lotta di Resistenza e avviata faticosamente la rinascita democratica, «già si erano potuti cogliere al momento stesso della fine della guerra quei primi tentativi di scindere tra responsabilità del fascismo e attuali disastrose condizioni italiane» (p. 689). Come scriveva nel gennaio 1946 Vittorio Enzo Alfieri, su «L’Acropoli» di Adol­fo Omodeo, «è l’antifascismo il vero accusato». Iniziava la stanchezza, il diso­rientamento che avrebbe portato, nelle parole di Piero Calamandrei a una sorta di «restaurazione clandestina». Dalla Resistenza si transiterà alla «desistenza», di cui parlerà la rivista «Il Ponte»: riprenderà voce l’Italia degli uomini «qua­lunque», gli «uomini senza memoria». «L’uomo qualunque – scriveva nel ’45 Aldo Moro su “Studium” – non è se stesso, è altri da sé, è pronto a tutto, cosí ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto dell’ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto». Nella seconda metà degli anni Novanta Marisa sviluppò la grande ricerca sulla storia della casa editrice Einaudi, disponendo dell’enorme documentazione conservata nell’archivio di questa impresa culturale, per decenni centrale nella storia dell’Italia contemporanea. Nel 1999 apparve, per i tipi di Bollati Borin­ghieri, il volume di circa mille pagine Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta. Nella premessa era indicato lo scopo di questa ricerca: «Storie individuali e storie collettive, ma, naturalmente, storie di libri: quelli pubblicati e forse so­prattutto quelli soltanto pensati, particolarmente rivelatori, a volte di questo processo». L’anno dopo, opportunamente, l’Accademia nazionale dei Lincei attribuí a questo libro il premio di ricerca della Fondazione Federico Chabod. Nel 2011 Marisa pubblicò una intensa e corposa prefazione a I verbali del mer­coledí. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, curata per Einaudi da Tommaso Munari. Si ricordava quanto Giulio Einaudi aveva precisato nel Colloquio di vent’anni prima con Severino Cesari: «Nel Consiglio del mercoledí si discuteva di “idee e di libri”, e non era il luogo dove parlare “di tirature, di vendita, di mercato”, se non a rischio di “tagliare le ali”». Ma, fin dalle prime righe, la raffinata ed energica studiosa metteva un punto fermo al ricomparire periodico delle critiche piú diverse all’impresa di Giulio Einaudi e alle sue scelte culturali e politiche.

Quando ormai anche le stagioni sembrano aver perso la naturale cadenza, a ritmare il passaggio del tempo, sopravvivono, implacabili e a regolari intervalli le polemiche sulla casa editrice Einaudi. L’occasione può variare. Si tratti di Delio Cantimori con­sulente della casa editrice, dell’iniziale rifiuto di Se questo è un uomo di Primo Levi; di Renato Poggioli collaboratore non difeso dagli attacchi di parte comunista; di Cesare Pavese e del suo Taccuino; della soggezione nei riguardi del Pci; dei modi con cui venne acquisita alla sinistra una egemonia sulla cultura italiana; fin della personalità e della «megalomania» di Giulio Einaudi: quello che in ogni caso si può dire è che ciò che l’Einaudi fu, continua ad essere un tarlo di cui uomini e organismi culturali, spesso di minor rilievo, non riescono a liberarsi. La domanda sottintesa è sempre la stessa: perché? e, come?

La passione per gli epistolari, fonte essenziale per la storia culturale e politica,l’ha portata a curare, nel 2004, sempre per Einaudi, Le Lettere dal confino 1940-1943 di Leone Ginzburg e a prefare, nel 2011 per Rubbettino, le Lettere (1945-1956) di Emilio Sereni, curate da Emanuele Bernardi, sulla base della imponente documentazione, conservata dalla Fondazione Istituto Gramsci.Non sembra casuale che, in quest’ultima occasione, Marisa abbia pubblicato un giudizio sull’«Italiano Qualunque» espresso dall’intellettuale e dirigente comunista, in una lettera a Giulio Einaudi di metà marzo 1947 (conservata a Torino), circa un progetto per una Breve storia dell’agricoltura e dei contadini d’Italia, che non vide la luce:

Si tratta di una storia del popolo italiano (dell’Italiano Qualunque) nei suoi canti. Si tratta di mostrare in maniera viva che l’Italiano Qualunque non è stato solo oppresso e sfruttato, che non ha detto soltanto «Franza o Spagna purché se magna», ma ha lottato e combattuto.

Marisa, nel licenziare la sua ultima raccolta di saggi in Civiltà della crisi, ha vo­luto sottolineare la «inattualità» di questi scritti, certamente in controtendenza rispetto alle fragili ed equivoche mode attuali. Tanto per non lasciare dubbi sul suo ripensamento della storia d’Italia, ha concluso con l’icastico giudizio espresso nel 1910 da Giovanni Amendola: «L’Italia come oggi è non ci piace».Addio Marisa, ci mancherai molto.

f. b.  

Transitions. Hobsbawm in the Italian historiography on Early Modern and Modern History
This article analyses the role played by Eric Hobsbawm in the Italian historiography on early modern and modern history. Despite his personal relationships and ideological commitments, the impact of his studies was far from being limited to Marxist historians. His contributions on the debates over the seventeenth-century crisis and the transition from feudalism to capitalism – whether totally accepted or criticized – were fundamental to understand and interpret the Italian way of economic and political development, from Rinascimento to Risorgimento. His model of social banditry, even if mostly criticized and considered excessively generalizing, remained crucial in all Italian studies on this topic, and helped stimulate them. His lessons on social history, the history of society, and subaltern studies were as important as the French «Annales school» was for Italian studies on social conflict and popular movements, as well as for the Italian «microstoria».

Hobsbawm’s Capitalism
Hobsbawm regarded Marxism as a research programme meant to investigate events such as the social structure of society «revolutionized», the role of productivity, the relation between classes and the wider economy, the international division of labour. Even in early works he examines everything comparatively and counter-factually. The entire planet becomes his laboratory. Thus, in the Age of Capital, he held the view that what really enabled the process of industrialization was the introduction in the first half of the 19th century of the railway, the steamer and telegraph which increased the potential size of the capitalist world. Note the centrality not of the class struggle or ideology, but of technological innovations or the central role of natural resources such as coal. Hobsbawm’s capitalism thrives in a world which is increasingly unified and interdependent. The hallmark of this capitalism is insecurity and anxiety. The workers were rarely distant from the insecurity of dismal poverty. An accident at work would instantly project the worker into abject poverty. But the bourgeoisie too was anxious, and rightly so: the industrial revolution which was sweeping throughout Europe and North America was bringing about an unparalleled upheaval in social structure. Hosbabwm’s capitalism is never a pure market mechanism, a machine for growth. The pages in which he describes the world of the bourgeoisie are masterpieces of social history. The belief that capitalism requires non-market relations pervaded his entire work. Capitalism relied on factors which have no intrinsic connection with the pursuit of individual advantage such as the «pride of achievement», the custom of mutual trust, but also the habits of obedience and loyalty. In other words, he wrote «capitalism has succeeded because it was not just capitalist».

History and Emancipation. Eric Hobsbawm’s life choices

Eric Hobsbawn is considered, for very good reasons, one of the greatest historians of the last century. His intellectual figure during the second half of the twentieth century has been a fundamental reference point for a great part of the culture of history – almost the same function that Marc Bloch had, in particular, starting in 1929. From many standpoints, Marc Bloch himself had to combine civil (and political) commitment with the severe rigor of his career as a historian. Hobsbawn, who represented a generation that saw social and political commitment as a life choice, explicitly theorized the coexistence of commitment and scholarship in scientific work. This essay analyzes the paths and results of a highly challenging cultural (and not only cultural) choice.

Working-class Turin, Gobetti, and Gramsci in Paolo Spriano’s historical works

Working-class Turin, Gobetti, and Gramsci in Paolo Spriano’s historical works

Turin’s working class and its cultural environment are the setting in which Paolo Spriano grew intellectually and politically. It is in Turin that Spriano’s early journalism career began, as did his collaboration with the publisher Einaudi; and from Turin, much of his early historiographical research drew inspiration. Piero Gobetti and Antonio Gramsci are the ideal referents for Spriano’s political engagement – from his early partisan militancy in a Giustizia e Libertà division to his membership in the Italian Communist Party. Reflection upon the nexus between «liberal revolution» on the one hand and communism on the other, between Gobetti and Gramsci, is a recurrent motif in Spriano’s works. In his case, it meant not merely untangling a historio graphical knot, but rationalizing his own intellectual and political progress.

Turin’s working class and its cultural environment are the setting in which Paolo Spriano grew intellectually and politically. It is in Turin that Spriano’s early journalism career began, as did his collaboration with the publisher Einaudi; and from Turin, much of his early historiographical research drew inspiration. Piero Gobetti and Antonio Gramsci are the ideal referents for Spriano’s political engagement – from his early partisan militancy in a Giustizia e Libertà division to his membership in the Italian Communist Party. Reflection upon the nexus between «liberal revolution» on the one hand and communism on the other, between Gobetti and Gramsci, is a recurrent motif in Spriano’s works. In his case, it meant not merely untangling a historio graphical knot, but rationalizing his own intellectual and political progress.

Paolo Spriano, Gramsci’s biographer

Paolo Spriano began working on Gramsci as early as the second half of the 1940s, at the start of his journalism career. However, the articles he published in the decade from 1947 to 57 make no original contribution to Gramsci’s biography. It is only in his 1960 volume on Turin during the First World War that Gramsci’s activity is reconstructed within the context of socialism in that city. In his work immediately after this volume, Spriano continued to develop Gramsci’s figure in the milieu of the Turinese socialist movement, while still not publishing anything of a specifically biographical nature. In the years that followed – with the exception of a brief biographical sketch aimed at a general audience – his contributions to Gramsci’s biography are seen in his overall reconstruction of the history of the Italian Communist Party (Storia del Partito comunista italiano). Through the systematic use of Central State Archive and Comintern Archive documents, he brought out the figure of Gramsci as a political leader in an entirely new light, taking care never to isolate him from the context of international communism. After publication of this five-volume history of the PCI, he devoted his time to the events surrounding Gramsci’s imprisonment, publishing hitherto unknown documents. And again, after the disputes over the relations between Togliatti and Gramsci, he took this matter in hand by both stimulating and undertaking new work. With his last, uncompleted work on the relations between Gramsci and the party, he again became the promoter of archive research, once more emphasizing the need for  documentary reconstruction.

«With strong attachment to the Party». Spriano the militant journalist, from Liberation to 1956
Before becoming an important historian, Paolo Spriano was a remarkable journalist. After a short experience at the Turinese daily newspaper «Giustizia e Libertà» – in whose ranks he had fought as a partisan – while in Turin he worked for «l’Unità», both reporting city news and reviewing history books (among others Gramsci’s prison notebooks). By the mid 1950s, he grew more and more puzzled by the forms of development
of Italian capitalism and their effects on the workers’ conditions. At the same time, he began to question the Leninist conception of the State as unfit for the conditions in which the PCI was called upon to act in Republican Italy, under the rule of an advanced democratic constitution. Although strongly criticizing the Soviet repression of the Hungarian uprising, in 1956 he chose to remain in the Party. Thirty years later, as shown by his book Le passioni di un decennio and by his correspondence with Norberto Bobbio, Spriano proved capable of a balanced re-examination of Stalinism and its fallout with the Italian Left.

In the «battle of ideas»: «Il Contemporaneo» and Istituto Gramsci
Albertina Vittoria analyzes Paolo Spriano’s political involvement in newspapers, magazines, and the cultural organizations of the Italian Communist Party (PCI). In particular, she analyzes his collaboration with the weekly publication «Il Contemporaneo», his participation in the cultural committee of the PCI, and his activity in the brief period during which he was director of Istituto Gramsci (1980). For Spriano, his political involvement was not achieved exclusively through participation in the PCI’s initiatives and organizations, but above all through his own research and studies on Gramsci, the PCI and the international communist movement, and their spread through numerous articles and presentations.

The historian and his publisher. Portrait with letters of Einaudi’s Spriano
This paper examines the relationship between Paolo Spriano and the Einaudi publishing house, within the wider framework of the relations between the PCI and Italian culture after World War II. Through numerous unpublished letters, it follows the gestation of Spriano’s most important books, as well as his relationships with editors and with Giulio Einaudi himself. The result is a rich and complex tapestry with a host of intellectual, academic, political and personal events, in the remarkably stimulating community that the Einaudi publishing house was able to be in the Italian postwar period, especially as it became an ideal political community attracting the participation of the time’s leading intellectuals.

«Being above the environment one lives in, and therefore without scorning it». On the Gramsci’s interest in Kipling
On the basis of detailed textual evidence from Gramsci’s writings, this article aims at fully establishing the importance of Gramsci’s interest in Kipling, and at putting forward a new interpretation of this interest. Existing secondary literature only includes a few contributions on this topic, focusing mainly on Gramsci’s explicit references to Kipling’s prose. This article shows a more pervasive presence – including echoes of Kipling’s poetry – in diverse and significant writings by Gramsci, and goes beyond the explanations that Gramsci himself provided for his interest in the work of the Anglo-Indian writer. A particular sense of proximity emerges to certain episodes and themes in Kipling’s literary work which revolve around questions of personal identity, more or less directly related to the historical context of colonialism. This proximity is a subtle indicator of Gramsci’s perception of his own life and socio-cultural background, and – as suggested in the final part of the article – may also provide useful elements to
further our understanding of Gramsci’s intellectual trajectory and of the biographical roots of his reflections on recent Italian history.

Luigi Longo and the PCd’I, from social fascism to the Popular Fronts
This essay reconstructs Luigi Longo’s itinerary as an emblematic one: known as «Gallo », Longo was among the top leaders in the Italian Communist Party, from the line of «social fascism» and the «united front from below» to the politics of unity of action with the Socialist Party and the anti-fascist Popular Fronts. While in 1933 – when
a self-criticizing rethinking began in the two wings of the labour movement and the PCd’I directed its first unitary proposals to Socialists and Republicans – Longo was in Moscow as Italian representative at the Comintern and from there he set out for Togliatti his reflections and recommendations for the Communist International. Starting in 1934, upon his return to Paris, he became a leading figure in united-front dialogue. It was he who led the PCd’I’s delegation at the meetings with the Socialist delegates, which gave rise to the unity of action pact, for which he found Pietro Nenni
as his main interlocutor. At the same time, the PCd’I and Longo wished to expand their political unity to the other anti-fascist forces, with the goal of building the «Popular Front» in Italy as well. Hence the contacts also made with the Giustizia e Libertà group, and the complex dialogue with Carlo Rosselli. For the Communists, the «popular front» in a country with a Catholic and fascist majority had to aspire to involve Catholic workers and those who were in the regime’s mass organizations. The dialectic between class unity and a larger anti-fascist policy, which was developed in Longo and the PCd’I in the 1930s, was to be at the basis of the liberation struggle of 1943-45.

Transitions. Hobsbawm in the Italian historiography on Early Modern and Modern History
This paper examines the Popular Fronts policy adopted by the Communist Party of Italy (PCd’I) in the mid-1930s. During the Seventh Congress of the Communist International, a political vision emerged and took shape in the PCd’I’s foreign centre, to deal with typical aspects of Italian fascism that were deeply rooted in the country and thus strongly influenced the international political debate. From that moment on, the development of the PCd’I’s political thinking focused on identifying partial political goals aimed at activating the working masses. The appeal to the «brothers in
black shirts», made in the summer of 1936, fits into this strategy. The investigation and the historical evaluation of the origin and the political meaning of this appeal were mainly focused on its political ambiguity, which resulted from a choice on which the top leaders of the Communist International and Togliatti himself would not have agreed. However, the available sources allow us to retrace the different phases that led to crafting the appeal. In this way, one may see that it resulted from a decision made among the leaders of the Communist International (IC). As a matter of fact, the leaders started discussing it at least as early as February 1936, in the context of the broader long-term analysis of fascism and in connection with the political planning that the PCd’I was to apply to Italy.

The PCI, divorce and changing values in Italy in the 1960s and 1970s
Historical research has clearly identified sharp peaks in changing values around 1800 and 1900. Sociological surveys, also related to political sciences, as well as recent historical research, now indicate that the 1960s and 1970s represented another such wave of accelerated change in values. This article will deal with what this last, third
wave of changing values looked like, and how it can be explained. Its focus is the internal debate of the Italian Communist Party on the divorce law, introduced in Italy in 1970 and then reconfirmed with a referendum in 1974, and on  changes in the family more generally. This debate was to see intensive development: first was the Female Section of the Party that in the early 1960s criticized the abstract conceptions of the communist family; then the ruling group, moving from the political agenda, also began to elaborate a renewed family model. This was the product of different reflections: partial acceptance of cultural and ethical change, a reconfirmation of the idealistic and class-based vision of society, and special strategic attention to the position of the Catholic party and the Vatican. From these various and conflicting expectations, a new family model can be formulated, that has only a partial relationship
with the change in values currently underway in Italian society. The article begins with a reconstruction of the historiographical debate on the changing values in Italy during the 1960s and 1970s.

The end of the political unity of Catholics and the birth of «Rete»
The question of the political unity of Catholics was at the centre of debate starting from the Second Vatican Council, when an important part of the Catholic world began to conceive of the possibility of not voting for the Christian Democrats. Later, in 1976, a group of Catholics decided to appear on the electoral rolls of the Communist Party, while the experience arose in the Catholic world of the Democratic League, a movement composed of believers often critical of the DC. The Catholic Diaspora began in earnest after 1989. In 1991, in fact, on a greatly changing Italian political landscape, the Rete movement was born. The origins of this movement lay in the experience of the «Palermo Spring» of the 1980s; its main figure was the Catholic Democratic mayor Leoluca Orlando. Rete, however, was not a Catholic project, as a variety of political experiences converged in this movement. The movement’s leaders, in fact, were Orlando, Nando Dalla Chiesa and Diego Novelli. In this experience’s few years of existence, Rete attempted to renew Italian policy and impose the values of morality as Italy was shaken by the events of the Mani Pulite («clean hands») scandal.

No abstract